Aa. Vv.
Le stanze dei fantasmi
Cosa fa di un libro un libro di successo? Nemmeno i più geniali matematici sapranno scovare un’equazione che descriva in modo assoluto il perfetto bestseller. Di certo, col senno di poi, sappiamo cosa fece di queste storie assemblate magistralmente un grande successo: otto grandissimi scrittori idolatrati dai lettori, un concept molto originale per l’epoca, una casa infestata, il Natale, la perfetta regia di Charles Dickens.
In una vecchia casa di campagna Joe e Patty decidono di invitare un gruppo di amici per vivacizzare le loro giornate. Una coppia affiatata, un giovanotto brillante, una femminista convinta, un ex marinaio col suo compagno di avventure e un avvocato di successo rispondono all’invito, e finiscono per partecipare a un singolare “ritiro” in una classica location alla Poe: una villa isolata e popolata di presenze dall’oltretomba. Vivranno per tre mesi insieme, lontani dal mondo, avendo la possibilità di scoprire quale fantasma abita la loro stanza (e la loro vita), senza mai farne parola. Soltanto alla fine, in quella che sarà chiamata la Dodicesima Notte, si riuniranno per raccontarsi ciò che hanno visto e udito, come in un inquietante Decameron.
Philippe Forest
Il gatto di Schrödinger
Il paradosso del gatto di Schrödinger: una metafora della condizione umana, focalizzata sulla intricata e dolorosa questione della perdita di una persona amata. Il gatto, contemporaneamente vivo e morto, è anche allo stesso tempo qui e altrove, e su questa effettiva condizione di possibilità Forest innesta, come negli altri suoi
romanzi, una dimensione autobiografica, che è radice di più ampie elaborazioni sulla realtà dell’immaginabile. La meditazione sul desiderio e sul lutto è riflessione sull’umanità più comune, sulle paure e le gioie più basilari. La riflessione sfiora il racconto filosofico per scegliere di farsi creazione, e rapisce il lettore che si trova, al di fuori del tempo e dello spazio, a rilevare nuovi confini di sé e del mondo. Ci riconosciamo così in grado di dare un senso al nulla da cui solo apparentemente ci sentiamo circondati. Intuiamo la compiutezza delle cose, in una specie di favola in cui vediamo le vite che potremmo vivere, le esistenze di cui potremmo esser parte e gli universi in cui potremmo abitare. E che forse abitiamo
Villy Sørensen
Storie strane
Storie strane attirò immediatamente l’attenzione dei lettori e in fretta superò i confini della Danimarca. Si trattava, almeno in apparenza, di un netto distacco dalla narrativa danese, espressione di una generazione che aveva vissuto lo smarrimento della guerra e del dopoguerra. Scritte in uno stile a tratti semplice e ironico, vicino a quello delle fiabe di Andersen, altre volte esplicitamente kafkiano, toccano temi quotidiani, storici, o anche di derivazione biblica: spesso metafore dei conflitti psicologici o dell’inadeguatezza dell’individuo a vivere serenamente nella società; rovesciano le prospettive e lasciano emergere l’assurdità della costrizione dell’uomo in schemi e pastoie che non gli sono propri e impediscono alla persona la sua vera realizzazione. Appare tipica, in questi racconti, la contrapposizione di due figure complementari che si rivelano veri e propri doppelgänger: un mondo popolato di uomini sdoppiati per la mancanza di libertà necessaria all’armonico sviluppo della personalità. Una disarmonia caratteristica delle nevrosi del nostro tempo e della complessità superficiale della nostra società, che ci vorrebbe adattati e proni alle dinamiche violente che ci inducono a fermarci alla superficie oleosa degli eventi, invischiati nella tristezza di una quotidianità senza sbocco né senso. E allora mostrare le crepe per permetterci di ricomporre il mondo appare come un compito irrealizzabile. Invece, è un compito che la letteratura può assolvere.