“Grado nella tempesta”
di Andrea Nagele
(Emons)
Recensione di Alessia Sorgato.
Ho trascorso a Grado, località balneare in Friuli Venezia Giulia, tutte le vacanze estive dai miei 14 ai miei 20 anni. Quindi le più spensierate. I ricordi meravigliosi di quelle estati adolescenziali, gli amici, le scorribande, i primi timidi amori, mescolati alle immagini di una cittadina straordinaria, mi hanno spinto a comprare l’ultimo romanzo di Andrea Nagele (il quarto, niente meno!), pescando lui, proprio lui, dagli scaffali ammiccanti che Sonia della Fahrenheit dedica ai gialli, la mia passione.
Io sono Alessia, vivo a Milano, frequento Piacenza da oltre trent’anni (ho casa a Croara e tantissimi amici in città) e sono avvocato penalista, ma recensire gialli è il mio hobby. Di solito prediligo gli italiani che abbiano un tema, a sfondo giuridico, di cui parlare, perché io mi occupo di violenza e trovo che gli scrittori, soprattutto quelli di thriller e noir, abbiano ereditato (assieme ai rapper, che ne fanno però un uso promiscuo) il compito duro ma edificante che un tempo fu dei cantautori: raccontare il mondo, le sue tristezze, le sue antinomie.
Andrea Nagele è austriaca, vive a Klagenfurt, ma adora Grado, e lì ha ambientato le sue storie. Io ho letto solo l’ultima, ma ci ho messo un Piacenza-Milano in treno, la sera del venerdì, qualche pagina stanotte e il resto stamani, domenica. Si legge d’un fiato, ma senza quella sorta di attacco di panico che oggi spacciano per “turning page effect”, ossia la sindrome ad andare avanti nella narrazione perché l’autore ti tiene in ostaggio. Leggi perché non puoi che farlo.
La vicenda parte da un fatto storicamente accaduto: l’8 agosto 2008, su Grado (dalla denominazione romana ad Aquae Gradatae), si è scatenato un tornado, che ha abbattuto alberi, scompaginato i litorali ed ammazzato qualche umano. Per Andrea, questo fenomeno meteorologico deflagrante è espediente letterario per costruire una vicenda corale avvincente, elastica, di grande tensione emotiva. Come nella trama cinematografica di uno dei miei film preferiti (quel Magnolia di Paul Thomas Anderson di cui tuttora, a distanza di 23 anni dalla prima uscita nei cinema, tesso ancora le lodi), l’avvicinarsi della tempesta, i suoi borbottii da lontano, stimola gli umori delle persone che mandano avanti con apparente normalità le loro vite, ma sono elettriche, caricate come molle dalla tensione atmosferica crescente, e parlano ed agiscono mosse dall’urgenza, dall’emergenza di risolvere i problemi, sciogliere i nodi, svelare i misteri.
I primi capitoli sono dedicati ciascuno ad un personaggio, o ad una vicenda, che poi si riunirà a tutti gli altri quando la burrasca si abbatterà su tutti loro. Covano sentimenti inespressi, rancori irrisolti, sproporzioni affettive destinate a rovesciarsi sugli altri. C’è la moglie che ha abortito per colpa di un incidente stradale, ed ancora ne porta le ferite nel corpo e nell’anima, il cui marito anaffettivo prenota in un camping, costringendola a spezzarsi le vertebre già rotte sul duro impiantito della tenda. C’è lo zingarello innamorato, che ascolta suo malgrado un discorso minatorio al buio di un blackout, e quando va a denunciarlo si scontra con il pregiudizio del poliziotto stanco e smaliziato, che non gli dà retta. Ci sono i tabu del passato, quando le donne che non volevano o non potevano potare avanti una gravidanza avevano solo le mammane come rimedio. E ci sono gli amori, grande, potente, burrascoso motore delle nostre vite: quelli ricambiati, ma soprattutto quelli zoppicanti, aritmici, disarmonici.
Quando finalmente la tempesta si abbatte su Grado, quel che ne rimane, dopo la furia degli elementi, è la nostra esistenza di umani. Un fiume di fango da cui affiora qualcosa.